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LA STANZA DI SONIA di MATTEO TIBILETTI

Ho assistito l’altra sera, presso il Parco Ramorino di Brenta, a “La stanza di Sonia”, monologo drammaturgico di Matteo Tibiletti, recitato con maestria da Monica Pillon e con altrettanta maestria registicamente condotto dallo stesso Tibiletti e da Emanuela Legno. A differenza di altri testi di Matteo non ne conoscevo il contenuto. E devo dire che la sorpresa è stata positiva. Molto positiva. Non solo per l’interpretazione e la conduzione scenica mai calata di tono, ma per la medesima struttura drammatica e contenutistica.
Si dice che un secondo prima di morire all’uomo sia data la possibilità di rivedere tutta la propria esistenza. Ecco: “La stanza di Sonia” mi è parsa come quell’ultimo secondo, dove la morte era rappresentata dalla menomazione di Sonia costretta, dopo un incidente, su di una sedia a rotelle.

L’ultimo secondo di vita ha così investito il pubblico in un susseguirsi di ricordi, emozioni, amori, odi, passioni latenti, frastornanti confessioni, ironiche allusioni ed ammissioni. Il tutto amalgamato in un racconto che non trascendeva mai nel banale o nello scontato, ma opportunamente registrato tra alti e bassi, luci ed ombre che si susseguivano come fasi regolari del giorno e della notte, delle stagioni e degli anni.
Di primo acchito la disabilità entro la quale si conduceva l’opera avrebbe potuto risultare un ostacolo. Al contrario la differenza esistente tra sano e malato esaltava in una specie di ibridazione paronomastica la sintesi di una vita di cui, proprio dal punto di vista di un debole, Sonia si appropriava con tutta forza e volontà. La metalepsi che ne scaturiva creava raccordi e processi psicologici invitanti, che si articolavano nel riassemblarsi dei momenti più importanti e vitali della protagonista.

Attraverso i ricordi – trasfigurazioni oniriche di una realtà vissuta e rivissuta anche in momenti limitatamente erogeni – si giungeva ad una specie di epinicio, metaforicamente rappresentato dalla risata finale che riassumeva in sé le vicissitudini di Sonia, i suoi rapporti col nonno limpidi e sereni (sebbene un punto interrogativo a cui non venne data risposta rimaneva sospeso come un fuscello al vento), i suoi attriti rancorosi con la madre (che alla fine sembravano appianarsi) e, come un mélange al substrato filosofico esistenziale, la dialettica religiosa (fede e non fede, intrigante diagnostica che si rabbatteva in un animo teso alla verità non precostituita, ma voluta e cercata in ogni modo e in ogni momento, contraggenio di dogmi).

La difficoltà della disanima rappresentativa stava nella staticità di una carrozzina, nella disabilità di Sonia, che rincorreva la sua coscienza con la sola espressività del viso, i gesti delle mani, i suoi occhi, il suo sorriso a volte lieve a volte sfrontato, o il pianto appena accennato. L’unico movimento, se si vuole chiamar così, fu il momento in cui la protagonista volle, inconsciamente, ribellarsi alla sua infermità: una caduta scontata, allegoria di un venir meno dei suoi pensieri, dei suoi sogni e del suo impeto improvviso.

Ma tale difficoltà fu superata in modo brillante con pesi e contrappesi di luci e musiche ben congeniate che conducevano lo spettatore in quella stanza di Sonia: rappresentazione plastica di una vita, fotografata da chi quella vita ha temuto di perdere, da chi ha vissuto in prima persona la paura della morte dalla quale si è affrancata tramite una sedia a rotelle.

Non per nulla il testo è risultato finalista al concorso nazionale “Teatro e Disabilità (2014), vincitore dei concorsi nazionali “Culture possibili” (2014) e “La Riviera dei Monologhi” (2015). Ma questo lo lasciamo al giusto orgoglio di Matteo insieme con i lunghissimi applausi del pubblico presente ed emotivamente commosso per quanto rappresentato.

Enea Biumi